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La parata del 2 Giugno - estratto da "Le scimmie del tenente Nolde".


La parata del 2 Giugno.


Agli inizi di Maggio ci fu comunicata la grande notizia: in rappresentanza della fanteria motorizzata avremmo partecipato alla parata del 2 Giugno per celebrare la nascita della Repubblica Italiana a seguito del referendum del '46. La notizia ci riempì di gioia poiché, oltre a prendere parte a un evento di così gran prestigio che si sarebbe svolto nella città eterna, saremmo stati impegnati in un'attività che non avrebbe comportato particolari problemi o sforzi eccessivi, marce forzate sotto il peso degli zaini o dover strisciare nel fango con la baionetta tra i denti, in pratica una vacanza. Ma i problemi si presentarono subito, infatti, ci fu detto che avremmo dovuto sfilare in formazione con un fronte di diciotto soldati. Ci rendemmo subito conto che l'operazione era pressoché impossibile, poiché era già da considerarsi un successo quando riuscivamo a far marciare quei lavativi su un fronte di tre senza che ognuno se ne andasse per i fatti suoi. Da quel giorno iniziarono le prove e non si fece altro. Dal mattino alla sera marciavamo sul piazzale nell'esatta formazione che avremmo meravigliosamente esibito il 2 Giugno. All'interno del blocco e collocati in punti strategici, vi eravamo anche noi ufficiali: due capitani alle estremità della prima fila, quella che avrebbe dovuto essere di riferimento per tutti gli altri, io in posizione arretrata di quattro file e al centro per cercare di tenere insieme il blocco, dietro di me il sottotenente Caresani con la stessa funzione. Gli ordini li dava direttamente il comandante di battaglione. Dopo una settimana di prove il risultato, almeno quando si procedeva in linea retta, era apprezzabile, disastroso invece quando si doveva voltare, e tornare indietro per ripercorrere il piazzale, cosa tra l'altro pressoché inutile poiché nella parata non avremmo dovuto compiere tale manovra ma solo delle piccole variazioni per seguire il tracciato di via dei Fori Imperiali. Fatto sta che quando si doveva girare quelli che erano all'estremità dovevano prodursi in uno scatto da centometrista perché la linea non si piegasse mentre il perno su cui ruotava il blocco doveva rimanere fermo, insomma un gran casino. Alla vigilia della partenza il nostro modo di marciare su giudicato soddisfacente... non ci rimaneva che preparare i bagagli e tenerci pronti a partire. A bordo di due pullman militari con scorta di ACL75 carichi anch'essi di soldati e di un paio di AR76 nuove fiammanti arrivammo a Roma. Durante il viaggio di trasferimento non accadde nulla di notevole a parte quando fummo superati da un carro funebre. Io ero seduto a fianco del tenente Colasanti dalla parte del corridoio, lui ovviamente lato finestrino; privilegi del grado! Lui era preda di un leggero torpore ma la sua palpebra non era del tutto calata e quando vide passare il nero automezzo che trasportava la salma, si rizzò di scatto, si rimise in testa il basco e fece il saluto militare che tenne fino a quando il carro funebre non scomparve alla nostra vista. Non avevo idea che gli ufficiali fossero tenuti al saluto di fronte a un morto, ma forse era solo stata un'iniziativa personale del tenente. Arrivati a Roma, andammo dritti sparati alla caserma dei lancieri di Montebello a Tor di Quinto, in cui saremmo stati gentilmente ospitati; si trattava di un reparto d'élite, di grande tradizione, e dove tutto si svolgeva ai sensi della più stretta etichetta. Solo per andare a mangiare in mensa ufficiali era un casino: ci si doveva vestire con l'alta uniforme con tanto di fascia, sciabola al seguito e guanti bianchi. Si entrava al circolo ufficiali, elegante e sfarzoso tanto da sembrare un bordello di lusso, e per prima cosa ci si recava al guardaroba dove si consegnavano cappello, guanti e sciabola, poi, attraverso brevi corridoi e qualche stanza, si entrava nel ristorante vero e proprio. Per primo s'incontrava il tavolo del comandante dei lancieri cui bisognava fare un saluto, non fosse altro per la sua gentile ospitalità, ma il saluto lo si doveva fare anche a tutti gli altri ufficiali presenti di grado superiore al proprio e pertanto l'operazione, almeno per me che nella scala gerarchica degli ufficiali ero al più infimo livello, durava non meno di venti minuti, prima che riuscissi a sedermi e solo dopo aver consumato almeno un centimetro buono di tacchi delle scarpe. Un leggero passo indietro e una doverosa precisazione: appena giunti a Tor di Quinto fornimmo immediata prova ai nostri ospiti e agli abitanti tutti del quartiere romano di quanto la confusione regnasse sovrana tra le nostre fila. Giunti davanti al portone d'ingresso l'autista del nostro autobus dovette fare una curva molto stretta per cercare di entrarvi, ma essendovi auto parcheggiate a bordo strada in seconda e forsanche in terza fila dovette impegnarsi in più manovre. Immediatamente il capitano Rovella prese il controllo della situazione, balzò a terra e cominciò a dare indicazioni all'autista su come manovrare. Al tempo stesso il capitano Caiazzo non volendo essere da meno balzò anche lui a terra, e anch'egli iniziò a istruire l'autista con indicazioni in perfetto disaccordo con quelle del suo pari grado. Il risultato fu che il povero autista non capì più nulla di quello che doveva fare e, malamente guidato, andò inesorabilmente a incastrarsi tra un'auto messa di traverso, un lampione e un cassonetto per l'immondizia, ovviamente bloccato a meno di un metro dal secondo autobus che era dietro di lui e che, chiuso a sua volta nella parte posteriore da almeno un centinaio di auto strombazzanti, non poteva fare retromarcia e fare spazio al suo gemello. Spostammo il cassonetto, un paio di auto le sollevammo di peso, lasciandole poi in mezzo alla strada, il lampione no, lo lasciammo al suo posto e, dopo soli quaranta minuti di manovre, un numero infinito di bestemmie, e dopo aver mandato a fare in culo i capitani Rovella e Caiazzo almeno un centinaio di volte, l'autista riuscì a disincagliarsi. Nei giorni che precedevano la parata, continuammo a fare prove insieme con altri reparti. Il luogo in cui ci esercitavamo era l'aeroporto in disuso di Centocelle, dove potevamo marciare indisturbati usufruendo di grandi spazi e senza essere di fastidio ad alcuno. Per buona parte della giornata marciavamo sotto un sole a picco, mai che ci fosse una nuvoletta a farci un poco di ombra!, e il risultato fu che ottenemmo tutti una splendida abbronzatura, peccato però il segno del basco: una striscia bianca di traverso sulla fronte che quando eravamo senza cappello ci faceva sembrare degli idioti. Tra le forze che si esercitavano in nostra compagnia vi erano anche le crocerossine, le quali marciavano impettite nelle loro belle divise bianche facendo risuonare i tacchetti delle loro scarpine. Quando capitava di incrociarsi, il che succedeva almeno venti volte in una giornata, dalle fila dei miei soldati si levava qualche apprezzamento, da principio timidi e galanti complimenti indirizzati a quelle più giovani e via via a seguire a tutto l'allegro e grazioso plotoncino, in certi casi con pesanti cadute di stile. Il mio ruolo da ufficiale avrebbe dovuto far sì che scoraggiassi tale pratica ma non ci riuscivo poiché i giudizi espressi dai soldati, che non si sapeva bene da quanto tempo non vedessero una donna, erano talmente singolari e in certi casi straordinari che tutto quello che riuscivo a fare soffocandomi dalle risate era pronunciare a bassa voce la frase: "Zitti! Non esagerate!", e rimanevo curioso di udire nuovi e sempre più interessanti apprezzamenti a ogni passaggio. Devo riconoscere che in quei giorni il mio vocabolario si ampliò considerevolmente. Arrivò il giorno, o meglio, la notte della prova generale. A due giorni dalla parata ci ritrovammo in quasi ottomila militari sul percorso. Sbarcammo in via dei Fori Imperiali verso l'una del mattino, paralizzando l'intera area e provocando l'ira delle puttane che battevano in zona. Fummo insultati, qualcuno dei soldati reagì e ne nacque un parapiglia, altri, approfittando della confusione si appartarono con le professioniste del sesso a pagamento. All'alba rientrammo in caserma. Giunse infine il giorno della parata. Ripercorremmo il tratto che avevamo fatto due notti prima fino ad arrivare a sfilare sotto il palco delle autorità. La nostra era una visione parziale della manifestazione e solo dopo apprendemmo di come si era svolta: alle 9:15 il Presidente della Repubblica, accompagnato dal ministro della difesa era giunto a Piazza Venezia e aveva posto una corona sulla tomba del Milite Ignoto, dopodiché aveva preso posto in tribuna in compagnia delle più alte autorità dello Stato. C'era il presidente del Consiglio, quello del Senato, il ministro dell'Interno, il presidente della Corte Costituzionale, il sindaco di Roma, e tanti altri ancora. Davanti a noi sfilavano i carabinieri paracadutisti del Tuscania, cazzutissimi, dei veri soldati, impeccabili nelle loro uniformi da combattimento e marziali fino all'inverosimile; non come noi che sembravamo lì per un pic-nic. Anche se era dura reggere il confronto tutti quanti ci impegnammo al massimo, e quando fummo a una cinquantina di metri dal palco delle autorità ci rendemmo conto che viaggiavamo spediti, sicuri, e come un sol uomo, insomma stavamo facendo la nostra porca figura. Ma a un tratto il capitano Rovella che era all'estremità della prima fila si mise a dare ordini per cambiare il passo perché secondo lui stavamo andando troppo veloci e rischiavamo di avvicinarci troppo a quelli del Tuscania. L'altro, il capitano Caiazzo, sentendo che il collega cercava di prendere in mano la situazione, non volle essere da meno e anche lui si mise a dare ordini, il risultato fu che, com'era successo nell'episodio con l'autista dell'autobus, la confusione tornò a levarsi a livelli altissimi, e alcuni militari ruppero il passo, pur rientrando immediatamente nei ranghi. A complicare le cose ci fu l'intervento del sottotenente Caresani il quale, sommamente divertito dal battibecco che si stava svolgendo tra i due capitani, si mise anche lui a elargire ordini a destra e a manca e in gran quantità, attività che svolse in maniera volutamente errata compromettendo in tal modo ancor di più la configurazione dell'intero blocco. Fu l'inizio del disastro: si cominciarono a vedere delle teste saltellare, file che si allargavano altre che si restringevano; e più i capitani Rovella e Caiazzo cercavano ognuno di recuperare, peggio si metteva. Giungemmo sotto il palco e facemmo il saluto al capo dello Stato, sfilando non come un blocco compatto e formato da massicci e cazzuti soldati ma presentandoci come molto più simili a delle ballerine di una scuola di samba durante il carnevale di Rio de Janeiro; insomma, in quell'occasione ci producemmo in una figura di merda a livello presidenziale e per di più al cospetto di più della metà del Consiglio dei Ministri. Solo quando ritornammo dalle parti del Colosseo, potemmo smettere di marciare. E anche quella era fatta!

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