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Le scimmie del tenente Nolde - estratto.

Giuro!

In quel momento non eravamo ancora niente di niente; e ciò ben lo sapevamo. Già in precedenza, infatti, ci era stato comunicato che prima di essere considerati a tutti gli effetti dei veri ufficiali e così poter entrare a far parte di quel mondo a pieno titolo e con tutti gli onori, avremmo dovuto prestare giuramento; e per ovviare a tale spiacevole mancanza che ci precludeva le porte dell'Eden e soprattutto per prepararci come si conveniva ad affrontare tale metamorfosi, fummo affidati alle amorevoli cure di uno scoglionatissimo capitano il quale in un paio di rapide sedute ci spiegò quale fosse il cerimoniale, le frasi di rito, l'esatta successione delle azioni che avremmo dovuto seguire in maniera più che scrupolosa; pena fustigazione in caso di errore, anche del più lieve... Ormai era soltanto questione di poco; da schifosissimi vermi striscianti saremmo diventati delle splendide farfalle e avremmo finalmente potuto librarci nell'aria. Arrivò il grande giorno, quello in cui avremmo giurato per la seconda volta alla patria e alla bandiera, ma non si sarebbe svolto mediante un rito collettivo, com'era stato alla scuola di fanteria, bensì individuale; ognuno di noi avrebbe pronunciato le sacre parole per conto proprio, alla presenza della bandiera della Repubblica Italiana ben salda nelle mani di un alfiere, faccia a faccia con il comandante del battaglione e al cospetto del corpo ufficiali al gran completo. Metà mattina. Rasati con estrema cura e indossando l'elegante uniforme, chiamata con l'ambiguo nome di "diagonale", ci recammo nel grande salone delle feste; avendo riguardo di non passare prima dal bar del circolo, come invece, palesando un atteggiamento alquanto irresponsabile, aveva proposto Marzari per darsi una piccola carica con l'aiuto di un Marzarino, un cocktail di sua recente invenzione: un terzo di gin, un terzo di whisky, un terzo di vino bianco, più un ingrediente segreto che si guardò bene dal rivelare e noi dal chiedergli; in buona sostanza un'autentica schifezza! Giungemmo nella grande sala. Evitando di procedere in ordine alfabetico il colonnello scelse di chiamare me per primo perché prestassi giuramento, forse perché dei tre ero quello a lui più vicino. Dalla sua gola il mio nome uscì producendosi in un rantolo sofferente, come se lo avessero appena accoltellato al fegato. Ci siamo!, mi dissi, e di scatto mi posi sull'attenti, ma subito mi fu dato il riposo e fui invitato a gesti a coprire con passo marziale la breve distanza che mi separava dal comandante, sguainare teatralmente la luccicante sciabola e rimetterla nelle sue mani; il momento era solenne! Quello la prese in consegna e la appoggiò con riguardo sullo stretto tavolo che aveva di fronte. Seguirono brevi parole che mi lasciarono indifferente e che appena proferite svanirono senza lasciarmi alcun ricordo. Nonostante tutto sembrava che si procedesse per il meglio, io aspettavo solo che mi giungesse l'invito a pronunciare la solenne formula di rito, che per fortuna erano solo poche battute e che ero riuscito a imparare a memoria: "Giuro di essere fedele alla Repubblica Italiana, di osservarne la Costituzione e le leggi e di adempiere... eccetera, eccetera", ma l'esortazione da me attesa inspiegabilmente tardava ad arrivare. Io e il comandante ci guardavamo senza parlare; l'espressione del colonnello era quella di uno rimasto troppo al sole, la mia di un animale braccato e stretto in un cantone. Un comune e impalpabile senso d'imbarazzo cominciò a levarsi tra quanti erano presenti nella sala; impossibile negare che io ero quello che soffriva più di tutti. Finalmente la situazione di stallo cessò: all'improvviso quello stordito del colonnello riprese in mano la sciabola e me la porse perché la afferrassi. Parbleu!, mi dissi, in realtà la mia fu un'espressione molto meno elegante, e com'era ovvio esitai a dar seguito a quella sconsiderata ed erronea azione. Infatti, ricordavo bene gli insegnamenti che mi erano stati impartiti: la consegna e il ritiro della sciabola, momento culminante della cerimonia, dovevano avvenire soltanto alla fine, e non prima di aver pronunciato la frase di rito del solenne giuramento. Volsi leggermente la testa verso il capitano che ci aveva istruiti e, poiché non mi era permesso parlare, con gli occhi cercai di chiedergli: "Ma che minchia devo fa-re?". Quello, invece di venirmi in soccorso, si mise a ridacchiare senza alcun ritegno, la canaglia! Nel frattempo il comandante insisteva e continuava a offrirmi la sciabola a braccia tese come un cameriere che stesse reggendo un vassoio di tartine. Con una serie di smorfie da pre-paresi facciale cercai di fargli intendere che stava commettendo una solenne cazzata, compromettendo secoli e secoli di cerimoniali delle Forze Armate. Alle sue spalle e ai lati vedevo e sentivo gli altri ufficiali ridacchiare. Vi fu anche qualcuno che provò ad avvertire il comandante con un paio soffocati di colpi di tosse, ma quel rincoglionito non colse il suggerimento e continuò imperterrito a porgermi la sciabola. Dopo un paio di lunghissimi minuti di tira e molla giunsi alla conclusione che non fosse il caso di rimanere tutta la mattinata così, in quella condizione di paralisi, e pertanto, anch'io fregandomene altamente della tradizione, agguantai quella cavolo di sciabola e pronunciai la formula. Al termine della mia commovente interpretazione le risatine si fecero più forti, e si udirono vari commenti e giudizi critici pronunciati a bassa voce. Mi giunse all'orecchio anche una frase distinta, indirizzata alla mia persona, che m'informava che di lì a poco ci saremmo ri-trovati tutti quanti al circolo ufficiali, a fare cosa poi, me lo avrebbero spiegato al momento opportuno, anche se già presagivo che non ne sarebbe venuto niente di buono; ma chi se ne fotteva! Malgrado tutto, nonostante l'errore marchiano del colonnello, da quel momento ero un ufficiale, e tanto mi bastava! La cerimonia proseguì. Il comandante, finalmente resosi conto dell'errore, rimediò con un cambio di rotta, e ritornò alla classica formula con la giusta successione dei vari passaggi, e così con gli altri due miei colleghi giuranti il cerimoniale filò via liscio, senza intoppi o storture. La gravità dello scandalo si diffuse per tutta la caserma e corse voce che vi fu anche qualcuno che si prese la briga di alzare il telefono per informare della cosa gli Alti Comandi. Tutti, escluso il comandante il quale preferì rintanarsi nel suo ufficio forse a meditare sul suo maldestro operato, ci trasferimmo al circolo ufficiali per il brindisi di rito.

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