Eleganza formale
Eleganza formale di Marcus L. Nolde
All'interno del palazzo Galbiati-Pucci l'attività era frenetica. La servitù andava e veniva sotto l'occhio attento della contessa Pucci la quale, data l'importanza del ricevimento che si sarebbe tenuto di lì a poche ore, sovrintendeva a ogni attività curando che tutto fosse perfetto, anche nei più trascurabili dettagli. La contessa, non più giovane ma ancora donna di notevole bellezza, era vedova ormai da tempo. La raffinata gentildonna aveva ereditato un più che cospicuo patrimonio dal marito, nobilissimo uomo, sempre afflitto nella sua breve vita dai malanni più strani e morto in insolite circostanze. La genesi della casata si perdeva nella notte dei tempi. Alcuni vociferavano notizie favolose e a bassa voce c'era anche chi osava sussurrare il nome di Carlo Magno; altri meno ferrati in questioni dinastiche ma equipaggiati di lingue certamente più malevoli, attribuivano il prestigio e la fortuna dei Galbiati all'importazione di carbone, attività iniziata in epoca lontana e le cui tracce si erano ormai perse o si era pensato bene di far perdere. Ma come spesso succede, tra viaggi, ricevimenti, operazioni finanziarie sfavorevoli e scialacquamenti vari, nel corso degli anni il patrimonio della contessa si era smagrito sempre più, e sebbene per lei non si fossero ancora spalancate le porte della miseria i denari rimasti non le avrebbero garantito per molto tempo ancora gli agi cui era abituata. Pertanto la nobildonna aveva elaborato un brillante e ingegnoso progetto all'insegna dell'arte e della cultura in genere, che se le fosse riuscito metterlo in pratica avrebbe riportato la casata agli antichi splendori. Aveva lavorato molto nella scelta dei contatti e delle protezioni e infine l'elenco si era circoscritto a pochi influenti personaggi che si erano dichiarati favorevoli all'iniziativa e disponibili a fornire il supporto che sarebbe occorso all'impresa ma che ancora non si erano adoperati in modo concreto. La contessa confidava che quella sera, complice l'atmosfera festaiola, dai suoi autorevoli ospiti sarebbe arrivata la rassicurazione che nella settimana successiva avrebbero messo mano al portafoglio e alle carte bollate. Tra gli invitati vi erano il Ministro per la Cultura, il Sovrintendente Nazionale alle Belle Arti, un'alta autorità vaticana in compagnia del suo segretario, e un piccolo gruppo di ricchi industriali che avevano in animo il lodevole desiderio e l'onesta ambizione di elevarsi a mecenati e consegnare il loro nome in modo imperituro alla Storia. Alle quattro del pomeriggio tutto era pronto. Vi era più solo da allestire la tavola nel salone delle feste. Lavinio, da molti anni al servizio in quella casa in qualità di maggiordomo, raggiunse la padrona per chiedere istruzioni riguardo a quale tovaglia avrebbe voluto fosse posta sulla tavola. La contessa Pucci rimase molto a pensarci, poi a seguito di una decisione molto tormentata, gli annunciò che per quell'occasione straordinaria si sarebbe adoperata la tovaglia che era appartenuta nientemeno che alla sua trisnonna, la marchesa Antonietta. Lavinio sobbalzo poiché ben sapeva quanto la contessa tenesse in considerazione quella tovaglia, custodita gelosamente in una specie di forziere e di tanto in tanto portata alla luce non per essere usata ma per essere contemplata con venerazione; tanto che il personale della casa, di nascosto dalla padrona, aveva scherzosamente dato a quel telo il nome di "la Sindone". Lavinio piegò il capo in segno di assenso e subito si adoperò a far sì che il personale allestisse la tavola come da ordini ricevuti. Arrivarono gli ospiti, furono serviti gli aperitivi. Molte chiacchiere, tanti sorrisi, il clima era gioviale e sereno; la contessa Pucci non avrebbe potuto sperare in una migliore predisposizione d'animo da parte dei suoi invitati. Giunse il momento di mettersi a tavola, e ci si trasferì nella grande sala. S'iniziò a mangiare e tutto pareva procedere per il meglio, tra motti di spirito, argute riflessioni, e il sincero e unanime apprezzamento espresso da parte dei commensali nei confronti della contessa quale ospite squisita. A metà della cena fu annunciato che in omaggio a uno degli avi del defunto marito della contessa, sorvolando però sul nome e sul titolo, si sarebbe osservata l'usanza gastronomica del Trou Normand, che tradotto significava "il buco normanno", che consisteva nell'offrire un bicchierino di Calvados ai banchettanti per facilitare la digestione e rinnovare l'appetito. La risposta fu entusiastica, e tutti si rilassarono nell'attesa che fosse servito il liquore. Rutgher il rampollo di una famiglia d'industriali tedeschi attivi nel settore dell'acciaio si trovava a quella cena in sostituzione del padre, il quale aveva avuto un lieve incidente durante una battuta di caccia e in quel momento si trovava in una clinica di Losanna, in Svizzera, per farsi curare quelle che erano poco più che escoriazioni. Il giovane, senza chiedere permesso alla padrona di casa o informarsi se a qualcuno fosse di molestia il fumo, con grande sicurezza e disinvoltura estrasse una sigaretta e la accese. Gli invitati sobbalzarono. Era noto che in casa Galbiati-Pucci era consentito fumare, tanto che anche la contessa si lasciava andare di tanto in tanto ad aspirarne qualche boccata, ma tutti, a eccezione del tedesco, avevano fatto caso all'assenza sulla tavola dei posacenere, e pertanto erano giunti all'ovvia conclusione che durante la cena il fumo fosse vietato o perlomeno non gradito. La contessa non si scompose e abbozzò a Lavinio un cenno d'intesa, scusandosi subito dopo con l'ospite fumatore per quella grave mancanza. Il maggiordomo, con uno schiocco di dita, si premurò di fare immediatamente portare in tavola i posacenere, delle vere e proprie opere d'arte in argento massiccio, dalla cui base si levavano figure favolose appartenenti alla mitologia greca e romana. Gli animi si rasserenarono; e alcuni degli invitati in cuor loro lodarono la disinvoltura, la prontezza di spirito e lo stile della padrona di casa. Il Ministro della Cultura e Sua Eminenza il cardinale B. ne approfittarono e accesero una sigaretta anch'essi; gli altri, perlopiù non fumatori, si astennero. Il giovane tedesco mentre era intento a conversare con il suo vicino non si accorse che avvicinando la sigaretta al posacenere per farvi cadere il tabacco combusto in eccesso aveva incontrato sul suo cammino il tridente del dio Nettuno, e che la punta di brace, separatasi dal resto della sigaretta, era caduta sulla tovaglia. Il primo ad accorgersene fu Lavinio che vide sollevarsi un sottile filo di fumo. Prontamente intervenne, ma subito si rese conto che per quanto si fosse attivato con grande celerità non era riuscito a giungere in tempo, e non poté far altro che prendere atto, e la contessa concordemente con lui, che l'integrità e la bellezza di quella tovaglia erano state in maniera definitiva compromesse. La contessa si agitò sulla sedia, sbiancò, ebbe un mancamento, ma alla fine si contenne e riuscì a trattenere il proprio biasimo. Il giovane, su cui tutti gli occhi si erano ormai posati, si scusò per l'accaduto, manifestando la propria volontà di porre rimedio se mai fosse stato possibile. Molti degli invitati, in special modo gli uomini, non compresero la gravità della situazione e dello sconvolgimento che aveva luogo nel sussultante petto della contessa, ma le signore, più perfide e curiose, si misero comode per soppesare e gustarsi la reazione della padrona di casa di fronte a un episodio così disdicevole. Alcune delle presenti si sarebbero aspettate che la contessa annunciasse che sarebbe stato possibile, consegnandola in mani esperte, far eseguire un delicato rammendo che avrebbe nascosto l'offesa subita, ma se così avesse fatto, avrebbe manifestato il proprio scontento e la preoccupazione per il capo rovinato. Altre pensarono che avrebbe finto di non dare importanza all'accaduto dicendo che si trattava di una tovaglia per cui non valeva la pena di darsi tanto pensiero, ma in quel modo si sarebbe espressa con indelicatezza e scortesia, ammettendo di non avere riguardo per i propri ospiti al punto di offrire loro il pranzo su una tela di poco conto. Altre ancora si sarebbero aspettate uno scadente motto di spirito, una frase con cui avrebbe descritto quanto stesse bene quel buco proprio nel centro e come aggiungesse un tocco di originalità ai ricami, ma anche in quel caso la contessa non ne sarebbe uscita a testa alta, rendendosi ridicola e pronunciando un'affermazione palesemente poco veritiera. La contessa spiazzò tutti. Con un amabile sorriso si rivolse al giovane e ricco ospite dicendogli che lui non era stato il primo a bruciare una tovaglia e che non sarebbe stato nemmeno l'ultimo a farlo, poiché la sua casa, palazzo Galbiati-Pucci, era sempre stata un ricettacolo, e rise con notevole compiacimento a quella parola, frequentato da accaniti fumatori. Rasserenatisi gli animi, Rutgher un poco frastornato e ancora in imbarazzo chiese il permesso di alzarsi per recarsi in bagno. Accompagnato da Lavinio, fu condotto in uno dei servizi per gli ospiti. Tornando verso la sala Lavinio incontrò la contessa che usciva dallo studio, e si stupì che lei avesse abbandonato anche solo per un momento i suoi ospiti. La vide andare alla porta del bagno dove era entrato il giovane, aprirla con grande sicurezza e serenità, e dalla soglia distendere il braccio. Poi sentì uno sparo. Lavinio raggiunse la contessa, si affacciò alla porta e vide il giovane steso a terra con un foro all'altezza della nuca da cui sgorgava pulsante un copioso fiotto di sangue. Sollevò lo sguardo e osservò la parete, il lavandino, lo specchio e tutti gli altri accessori, meravigliandosi per quanto fossero lordati di sangue e di altro materiale organico e ragionando su come si sarebbe potuto fare per ripulire. Si rivolse alla contessa e le chiese perché avesse sparato a quel giovane mentre era nel bagno. La contessa gli rispose che se lo avesse fatto in sala davanti agli altri ospiti non sarebbe stato elegante.
Nota: il racconto è opera di fantasia. Eventuali omonimie, coincidenze di caratteri fisici e morali tra i personaggi della storia e persone realmente esistite o esistenti sono da considerarsi frutto di casualità.