Controcommedia. Essai critique flaubertien d'un roman de Marcus Nolde.
Tratto da la raccolta Ognuno ha la corrispondenza che si merita, a cura di Marcus L. Nolde. Terza parte.
11 Aprile 2018, Lucio Frigio scrive:
Controcommedia. Essai critique flaubertien d'un roman de Marcus Nolde.
Nota: Ovvero (precisazione aggiunta da Marcus Nolde), come spesso e volentieri i lettori non capiscano una beata fava di ciò che abbia voluto trasmettere l'autore attraverso il proprio scritto!
Sei personaggi in cerca d'autore cercano di Vestire gli ignudi.
Ma non è una cosa seria.
Luigi Pirandello
L'autore, Marcus Nolde, la cui freschezza narrativa piaceva già al giovane Holden, ha testé dato alle stampe la sua quinta prova letteraria, in forma di romanzo breve, col titolo impegnativo di Controcommedia (pag. 130, Lulu impressit, december, a.D. MMXVII, suis sumptibus, Euro 11,00).
Do per scontato che il titolo vada pronunciato, secondo l'antica vulgata, come per Dante: Contro-Comedìa. Con la sua brava "m" scempia, e l'accento sulla i, come solevano i coribanti di scuola ipponattea, secondo l'uso dell'anapesto trocaico.
Ciò detto, il nostro compito di attardati glossatori noldiani sarebbe quasi giunto al termine, se non ci occorresse analizzare la drammatica virata di Nolde verso i territori incogniti della autorefenzialità metatestuale.
Tzvetan Todorov, nel suo Il principio dialogico (traduz. italiana Einaudi PBE 1990) ci aveva messo in guardia contro l'abuso dell'intercalare dialoghi paratestuali al flusso narrativo.
Nolde va in direzione opposta: struttura il suo romanzo come un dialogo diretto e ininterrotto fra l'autore e i suoi personaggi, ponendosi spesso in antitesi e rivendicando, talvolta con esiti irrelati, il principio di auctoritas: auctor sum, ergo auctoritas esto.
Intendiamoci: il tentativo non è nuovo né originale. Lo aveva già adottato Pirandello nel 1921, con clamoroso successo, nella sua commedia Sei personaggi in cerca d'autore, che lo laureò autore teatrale di fama mondiale. Ma si era, appunto, in teatro e si recitava davanti a un pubblico chiamato a partecipare, senza lo schermo della "quarta parete".
Pirandello era un magistrale sceneggiatore, e disponeva di attori di prim'ordine, molto affiatati (memorabile fu, nel 1923, l'interpretazione della sua bravissima Maria Abba, in Vestire gli Ignudi da cui fummo tutti rapiti; ma in teatro appunto, dal vivo. Altra cosa è invece la fredda pagina di un testo, per di più scritto con la lucida determinazione di contestare l'usus scribendi di tanti suoi grafomani coetanei.
Nolde lo sa bene. Egli si considera infatti, più uno sceneggiatore che un romanziere. (sua dichiarazione pronunciata davanti al numeroso pubblico che assisteva alla presentazione della sua opera prima Tre punte di ruggine a Casale Monferrato nell'estate del 2015).
Marcus era consapevole delle difficoltà a cui andava incontro nel tentare questo inusuale modulo espressivo, tuttavia riteneva di poterle superare con un espediente geniale: sostituire la "quarta parete" della platea, con l'inserimento di dialoghi "in corsivo", dove poter riaffermare la sua preminenza autoriale, rispetto agli interventi corrosivi dei personaggi, ognuno dei quali si trovava in dissenso con lui e con gli altri coprotagonisti.
Si può affermare che questo espediente abbia funzionato? Sì e no. Ai posteri l'ardua sentenza, secondo la pilatesca affermazione di Don Lisander.
Ciò malgrado, il romanzo scorre bene, vuoi per la spigliatezza dei dialoghi e la vivacità dei singoli caratteri, su cui incide favorevolmente il fraseggio serrato, la rapidità con cui avanzano i capitoli, nel loro riprendersi, contraddirsi e ricongiungersi nell'alveo di una narrazione che apparentemente si distende, ma poi precipita in fragorosi coups de théatre.
Il lettore non fa in tempo ad abituarsi al ritmo, crede di aver capito dove si vuole andare a parare, ma poi al capitolo successivo lo scenario cambia repentinamente, sparisce un fondale, le quinte cambiano colore, fino all'immancabile discesa finale dell'immancabile deus-ex-machina, non del tutto imprevedibile, per la verità (i nomi di Emma e di Gustavo erano indicatori precisi, come se, attraversando un territorio incognito, tu scoprissi indicazioni stradali con toponimi come: Carate, Usmate, Vimercate, etc., deducendo all'istante non solo di trovarti in Lombardia, ma di essere dentro al triangolo delle Bermude brianzole.
Giova poi, oltre alle suddette doti di agilità prosodica, anche la brevità complessiva dell'opera: 130 pagine, che a Proust sarebbero bastate a malapena a descrivere l'allegra brigata delle Jeunes Filles en Fleur mentre si scatenavano ilari e selvagge sulla spiaggia di Balbec-Cabourg.
Oppure quante non sarebbero bastate al buon Gustave per definire lo spleen indefinito in cui si dibatte il suo Frédéric, a causa di una imperfetta Education Sentimentale.
Flaubert non deve confonderci, tuttavia. Non tanto perché Nolde mi ha invitato a non trarre conclusioni errate, dichiarandomi che Gustave non c'entra granché, essendo la sua apparizione nel finale pura agnizione, un espediente per concludere in bellezza il suo romanzo.
Considera poi, mi spiega Nolde, che Flaubert, a differenza di Balzac e di Stendhal, non entra mai in collisione con i suoi personaggi, non invade la scena, non interloquisce con loro. Lui se ne sta in disparte, ma non è indifferente, anzi osserva ogni minimo particolare, sta in disparte, prende nota di tutto ciò che avviene davanti a lui, per riferirne poi al lettore.
Dei Francesi Nolde ha qualche stima, ma non di Proust, che definisce un cagadubbi. Se mai di Celine. Nolde ha una vera affinità elettiva con Celine. Ma, indovina un po', chi mi ha ispirato di più, dichiara, per questa mia Contro-comedìa?
Lewis Carroll! L'ammiratore delle implumi bimbette di Alice, geniale logico-matematico, a dispetto dell'impeccabile clergyman. Indovinala grillo, non ci si prende mai, con questi giovani autori. Ma era da quando mi capitò di assistere, nel lontano 1921, alla prima dei Sei Personaggi pirandelliani, che non mi ricordo di essermi così divertito a teatro. Perché tale considero la Comedìa noldiana, puro teatro in prosa.
Tutto bene, dunque?
Beh, luci ed ombre.
Fra i pregi ho già sottolineato il felice susseguirsi delle scene, alcune di "fresca beva", altre gustose e fragranti come certi piatti della cucina di campagna.
Vediamo ora i difetti. O meglio i suggerimenti che darei al nostro giovane Holden, perché se no, a cosa mai dovrebbero servire gli amici?
1.
Si fuma troppo in queste pagine. "Tu e le tue schifosissime sigarette.. stai zitto e vedi di non farmi inca...volare" (pag.71)
Appunto.
A parte che dovresti scrivere "farmi incazzare", senza tanti puntini.
Cos'è questa brutta attenuazione retorica, peggio di una litote? Che cos'è questa puerile autocensura, quando qualsiasi ragazzina prepubere ti risponderebbe a muso duro: ma tu che cazzo vuoi?
Poi, ho capito, ti piacciono le Win... Si chiamano Winston, non c' è da vergognarsi, non è vietato fare qualche réclame, magari ci scappa anche qualche soldino.
Le fumavo anch'io dopo aver sostituito le ben più nutrienti Nazionali senza filtro, che a loro volta, avevano sostituito dal 1955, le ben più rustiche Alfa (naturalmente senza filtro. Le Alfa, tipica sigaretta da muratore in bilico sui ponteggi, non hanno mai avuto filtri di sorta). Ma è il caso di menarla con 'ste sigarette per pagine e pagine? Non qua e là, su e giù attraverso le 130 paginette. Tabagista anonimo! Che poi son molto meglio quelle che ti arrotoli da solo, col trinciato forte da pipa.
2.
Tette, cosce, culi. Per non parlar di fiche (secondo il corretto uso tosco, vulgo fighe, orrido lombardismo. Cfr. padre Dante che in Inf. (canto VIII? Guarda colui "che fa le fiche".
OK il prezzo è giusto. Quid vetat? Nemo vetat.
E dagli con la cameriera, con la fantesca, con la barista, chi più ne ha, più ne metta. E poi tutti assatanati con la dolce Emma, mogliettina dell'indomito protagonista.
Ma guarda che la Ravera, quella proto-femminista sessantottina, in Porci con le Ali (con quel meraviglioso incipit CAZZO-CAZZO-FICA-FICA, più travolgente dell'Ei fu del Cinque maggio manzoniano) ti aveva già preceduto di più di quarant'anni suonati. Camilla Ravera! Mitica! Oltretutto era una graziosa ragazzuola, quindi lei sì che se ne intendeva, di fiche).
Ma è possibile che ogni creatura femminile, che non sia ultra ottantenne, quando se ne va, girandosi, mostra immancabilmente un prosperoso culo, che dimena ancheggiando? (anche perché allontanarsi rinculando, lo si fa ormai solo alla corte della Regina Elisabetta). Ma è possibile che a ogni cena, pranzo o colazione ci sia sempre uno smanacciare sotto la tovaglia, che nemmeno negli indimenticabili filmini di Pierino?
3.
E poi, puttana la miseria, sempre con queste ditte, assicurazioni, banche, capi-ufficio (con le solite segretarie tette & culo) direttori generali, amministratori delegati (vil razza dannata. Delegati da chi, poi? E via a fioccare: presidenti, capi filiali etc.
Mai che ci sia un ragioniere: chi li tiene i conti in queste aziende? E poi capisci come mai in Italia siam messi così male. Ah la poesia di un libro mastro, di una partita doppia ben tenuta.
I ragionieri salveranno il mondo (Matteo, 12, 4, 35)
E i geometri? Mai che ne compaia uno eh, caro Nolde?
Come se sul frontone del Portico di Accademo (poi detto Accademia, come Via Accademia nel Monopoli, cartellino arancione) non ci fosse, scolpita nel marmo pario: "Qui non entri chi non è Geometra".
Come ci narra il Divino Aristotele (No, non quel burino di Onassis, che smaniava per farsi Jacqueline) GHEOMETHER ci stava scolpito sul marmo, non "presidente". Misuratore della Terra, non dell'ampiezza della scrivania "in legno pregiato" (pag.73) A Milano, al ventesimo piano di un palazzone che dava su piazza Cavour (con statua giustamente scagazzata dai piccioni) me ne avevano data una in palissandro beccamorto di circa 10 mq., con poltrona in pelle nera, pure lei da beccamorto.
Diedi disposizione che mi fossero cambiate entrambe seduta stante, è proprio il caso di dire.
Mi raggiunse trafelato il supremo A.D.
˗ Cosa c'è che non va, ˗ disse, ˗ caro il mio novello D.G.? Le giudica inadeguate?
˗ No, al contrario, satrapesche. Ma vede, la scrivania è troppo grande, non ci devo giocare al biliardo, e la poltrona non va: la pelle fa sudare il culo, non trova?
Si allontanò, costernato, scuotendo il capino. Questo mi sa che non dura. E così fu.
4.
Ce ne sarebbero ben altre da aggiungere. Per esempio: questa continua avidità di particolari trascurabili, tipo (apro a caso, pag. 109): "... giunto a destinazione Giuliani scese dal taxi, percorse pochi metri a piedi e s'infilò all'interno della pensione...".
Perché non dire semplicemente: "Giuliani entrò nella pensione"?.
Certo che Giuliani si comportò come fa qualsiasi altro essere umano, in circostanze simili. E poi non è vero: l'ho visto io, il Giuliani, che intima al tassista di fermarsi a 500 metri dalla pensione, e dopo essersi messo l'apposito costume con la S e la mantellina, spiccare in volo direttamente dal finestrino del taxi al balcone della camera della procace Helena. Oppure, senza esagerare: Giuliani ordinò al taxista di scendere nel garage della pensione, infilare la macchina nel montacarichi e salire direttamente al terzo piano, dove poter entrare, con la massima discrezione, nella camera della callipigia Helena, come suol fare ogni gentiluomo.
E poi, a parte queste spigolature stilistiche, appare superfluo dire che Giuliani "s'infilò all'interno della pensione". Difficile, invece, sarebbe stato infilarsi FUORI. E poi il climax dell'azione giulianesca, e dell'attento lettore, non sta nell'infilarsi in una squallida pensioncina, ma direttamente, nella candida Helena.
Bada ben, bada bene, che di queste minute e inutili precisazioni ce ne sono parecchie. Un esempio: il protagonista si vuol fumare una sigaretta (aridaje col fumo: nuoce gravemente etc.). La prende dal pacchetto, la porta alle labbra e, … indovina. La accende. Con che cosa? Con un cerino? No: era un minerva, la bustina è piatta, fa fine. Ma nemmeno per sogno: l'accende con l'accendisigaro della macchina, che come ricorderai Giuliani aveva ordinato al taxista di parcheggiarla davanti alla porta di Helena. Ma no tu devi precisare che l'accende con un'apposita macchinetta. Quale? Quella col collo lungo che usi per il caminetto? Un usa-e-getta Bic? Banale. Era un Ronson, modello da tavolino, argentato, cerchiamo di mantenere un certo stile?
E se invece Giuliani si fosse limitato a tenere la sigaretta in bocca ma spenta, anche in considerazione del fatto che la signorina Helena, nel reciproco scambiarsi di tenerezze, avrebbe potuto non gradire o, dio non voglia, ustionarsi.
Le cose in realtà, come tu sai, andarono altrimenti: Giuliani, che era uno spirito galileano, oltre ad essersi laureato a Oxford in chimica molecolare, aprì la finestra, (con la disapprovazione di Helena, che nel frattempo aveva cominciato a spogliarsi, essendo ragazza pratica e assennata) pose la sigaretta sulla mensola ed estratto un piccolo specchio ustorio da tasca, di sua invenzione, concentrò i raggi solari sulla punta della sigaretta, che prese immediatamente fuoco, sprigionando un tanfo disgustoso. Troppo calore? In effetti il suo specchietto poteva concentrare i raggi del sole in infinitesimo puntino fino a raggiungere i 2000 gradi Celsius.
Ma non fu l'eccessiva temperatura a sprigionare fiamme e gas tossici. Quel pirla di Giuliani aveva concentrato tutta la potenza del sole non sul tabacco, ma sul filtro!
Questo si aspetterebbe da te il lettore medio. Il resto sono chiacchiere, tran-tran.
Ce ne sarebbero ben altre critiche da farsi, ma sono stanco e Pepi reclama i suoi gustosi antipasti felini.
Rimango però con un fondo di livorosa invidia verso di te: com'è possibile che uno sprovveduto scrittore come te riesca a narrare tante belle storie, così ben congegnate, mentre io, dotato, sia detto senza sicumera, di cultura, gusto, uso di mondo, sterminate letture sui presocratici, non riesco a mettere insieme due paginette sul più fulgido eroe dai tempi di Achille, sul glorioso generale Desaix?