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Controcommedia di Marcus Nolde, una bizzarra recensione.



Controcommedia di Marcus Nolde, una bizzarra recensione.


Ho appena terminato di leggere la quinta opera letteraria dell'autore Marcus Nolde, in forma di romanzo breve e dal titolo impegnativo di "Controcommedia". Do per scontato che il titolo debba essere pronunciato, secondo l'antica vulgata, come per Dante: Contro-Comedìa. Con la sua brava "m" scempia, e l'accento sulla i, come solevano i coribanti di scuola ipponattea, secondo l'uso dell'anapesto trocaico. Ciò detto, il nostro compito di attardati glossatori noldiani sarebbe quasi giunto al termine, se non ci occorresse analizzare la drammatica virata di Nolde verso i territori incogniti della autorefenzialità metatestuale. Todorov, nel suo "Il principio dialogico" ci aveva messo in guardia contro l'abuso dell'intercalare dialoghi paratestuali al flusso narrativo. Nolde va in direzione opposta: struttura il suo romanzo come un dialogo diretto e ininterrotto fra l'autore e i suoi personaggi, ponendosi spesso in antitesi e rivendicando il principio di auctoritas: auctor sum, ergo auctoritas esto. Intendiamoci: il tentativo non è nuovo né originale. Lo aveva già adottato Pirandello, nel 1921, con clamoroso successo, nella sua commedia "Sei personaggi in cerca d'autore" che lo laureò autore teatrale di fama mondiale. Ma si era, appunto, in teatro e si recitava davanti a un pubblico chiamato a partecipare, senza lo schermo della "quarta parete". Pirandello era un magistrale sceneggiatore, e disponeva di attori di prim'ordine, molto affiatati (memorabile fu, nel 1923, l'interpretazione della sua bravissima Maria Abba, in "Vestire gli Ignudi" da cui fummo tutti rapiti) ma in teatro appunto, dal vivo. Altra cosa è invece la fredda pagina di un testo, per di più scritto con la lucida determinazione di contestare l'usus scribendi di tanti suoi grafomani coetanei. Nolde lo sa bene. Egli si considera infatti, più uno sceneggiatore che un romanziere (sua dichiarazione pronunciata davanti al numeroso pubblico che assisteva alla presentazione della sua opera prima "Tre punte di ruggine" a Casale Monferrato nell'estate del 2015). Marcus era consapevole delle difficoltà a cui andava incontro nel tentare questo inusuale modulo espressivo, tuttavia riteneva di poterle superare con un espediente geniale: sostituire la "quarta parete" della platea, con l'inserimento di dialoghi "in corsivo", dove poter riaffermare la sua preminenza autoriale, rispetto agli interventi corrosivi dei personaggi, ognuno dei quali si trovava in dissenso con lui e con gli altri coprotagonisti. Si può affermare che questo espediente abbia funzionato? Sì e no. Ai posteri l'ardua sentenza, secondo la pilatesca affermazione di Don Lisander. Ciò malgrado, il romanzo scorre bene, vuoi per la spigliatezza dei dialoghi e la vivacità dei singoli caratteri, su cui incide favorevolmente il fraseggio serrato, la rapidità con cui avanzano i capitoli, nel loro riprendersi, contraddirsi e ricongiungersi nell'alveo di una narrazione che apparentemente si distende, ma poi precipita in fragorosi coups de théâtre. Il lettore non fa in tempo ad abituarsi al ritmo, crede di aver capito dove si vuole andare a parare, ma poi al capitolo successivo lo scenario cambia repentinamente, sparisce un fondale, le quinte cambiano colore, fino all'immancabile discesa finale dell'immancabile deus ex machina, non del tutto imprevedibile, per la verità i nomi di Emma e di Gustavo erano indicatori precisi, come se, attraversando un territorio incognito, tu scoprissi indicazioni stradali con toponimi come: Carate, Usmate, Vimercate, etc., deducendo all'istante non solo di trovarti in Lombardia, ma di essere dentro al triangolo delle Bermude brianzole. Giova poi, oltre alle suddette doti di agilità prosodica, anche la brevità complessiva dell'opera: 130 pagine, che a Proust sarebbero bastate a malapena a descrivere l'allegra brigata delle Jeunes Filles en Fleur mentre si scatenavano ilari e selvagge sulla spiaggia di Balbec-Cabourg. Oppure quante non sarebbero bastate al buon Gustave per definire lo spleen indefinito in cui si dibatte il suo Frédéric, a causa di una imperfetta "Education Sentimentale". Flaubert non deve confonderci, tuttavia. Non tanto perché Nolde mi ha invitato a non trarre conclusioni errate, dichiarandomi che Gustave non c'entra granché, essendo la sua apparizione nel finale pura agnizione, un espediente per concludere in bellezza il suo romanzo. Considera poi, mi spiega Nolde, che Flaubert, a differenza di Balzac e di Stendhal, non entra mai in collisione con i suoi personaggi, non invade la scena, non interloquisce con loro. Lui se ne sta in disparte, ma non è indifferente, anzi osserva ogni minimo particolare, prende nota di tutto ciò che avviene davanti a lui, per riferirne poi al lettore. Dei Francesi Nolde ha qualche stima, ma non di Proust, che definisce un cagadubbi. Se mai di Celine, con cui Nolde ha una vera affinità elettiva. Ma allora, chi è stato ad ispirare Nolde per questa sua "Controcommedia? Indovinala grillo! Con uno come Nolde non ci si prende mai! Ma era da quando mi capitò di assistere, nel lontano 1921, alla prima dei Sei Personaggi pirandelliani, che non mi ricordo di essermi così divertito a teatro. Perché tale considero la Commedia noldiana, puro teatro in prosa.

L.F.

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