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IL DIARIO
SCONCIO E GROTTESCO
DI GILBERTO CONTER
Marcus L. Nolde

 


PARTE PRIMA


Sera d'estate del 1989, dopo cena. Mi trovavo al Ke-Ké: bar, piano-bar, e petit restaurant, poteva essere martedì o mercoledì, non ricordo; mi rammento però della cantante: s'agitava quasi fosse una scrofa in calore e in faccia aveva stampato il grugno di una che avesse appena ammazzato la madre; roba da levarti il pelo!
Seduto al tavolo vicino al mio c'era Carlo, un noto travestito cinquantenne che si faceva chiamare Carola; scarpa rossa, tacco 12, nuova di pacca: 200 biglietti da mille; inutile dire che era uno ricco di famiglia, uno che non badava a spese!
Il pubblico non era di certo quello delle grandi occasioni: a parte una già impegnata e tenuta ben stretta dal suo ganzo di altre degne di lasciva attenzione da parte mia non ve ne erano… Rassegnato, avevo compreso che in quella specie di Corte dei Miracoli di gusto squisitamente metropolitano, covo di furfanti e domatori di fighe da poco prezzo, altro non mi restava che alzare il gomito per mitigare lo sconforto; pertanto mi alzai per guadagnare il bancone, ne avrei anche approfittato per sgranchirmi le giunture. In quel momento la vocalist attaccò con un nuovo pezzo; pareva una lagna natalizia, in bella sintesi: una gran rottura di coglioni.
Un paio di tavoli più in là del travestito c'era il professore; noi clienti abituali sapevamo che era un medico sebbene mai nessuno si fosse preso la briga di chiedergli quale fosse la sua specializzazione e in quale struttura pubblica o privata esercitasse. Il medico sollevò il bicchiere al mio indirizzo, sorridente come un chierichetto in gita parrocchiale. Risposi alla cortese chiamata e brindai a distanza con il poco fondo che mi era rimasto.
La nenia continuava a diffondersi per il locale. La canzone, era evidente, non piaceva. Qualcuno protestò. Ci fu anche chi per dispetto sputò per terra; era il principio di una rivoluzione. Il barman titolare comprese che doveva assecondare il volere della clientela e porre fine all'incresciosa situazione, pertanto, con un gesto imperioso e inequivocabile fece intendere alla cantante che era arrivato il momento di troncare quello strazio. La sciantosa capì che rischiava di farsi stendere secca e ubbidì passando a una canzone più allegra e scoppiettante. Il clima si fece più disteso e ci sentimmo tutti meno infelici.
Nel momento in cui pensavo che la serata mi avrebbe riservato soltanto delusioni dalla porta d'ingresso entrarono nel locale due giovani manze campagnole. Carni sode e abbronzate. Erano sole e mai viste prima; probabile che fossero arrivate dal paesello con l'ultima corriera della sera; due del tipo: Vorrei fare la puttana ma la mamma mi ha detto che non è bene; però io ci provo comunque! e si diressero al bancone zampettando sugli alti tacchi.
Scattai, e con quattro elastici balzi raggiunsi le sgallettate. Con studiata tecnica che mi veniva da anni d'intensa e fruttuosa pratica attaccai subito discorso. Sin da principio mi resi conto che faticavano a comprendere i miei eleganti giri di parole e il significato delle roboanti frasi che con grande trasporto inanellavo una dietro l'altra; infatti si guardavano con fare interrogativo e comunicavano tra loro con l'uso di monosillabi e grugniti isterici. Di certo le stordite non avevano afferrato il senso della mia appassionata orazione che si riassumeva nella più che legittima brama di giacere in posizione orizzontale con una qualsiasi di loro o, perché no? con entrambe al medesimo tempo. Persistendo tale condizione di deprecabile incomprensione, ragionai che se avessi voluto conseguire il risultato sperato sarebbe stato più opportuno esprimermi in una maniera più confacente alla loro personalità e formazione, ed evitando gli svolazzi e i preziosismi linguistici andare subito al sodo pur senza rinunciare a essere galante, pertanto dissi:
‒ Siete proprio due belle fighe!
Una, la bruna, si fece seria, quasi incazzata; l'altra, la bionda, si mise a ridere in modo sguaiato… intanto pensai di ordinare al barista in seconda qualcosa da bere e, per fare lo splendido chiesi se volessero farmi compagnia.
La loro risposta fu affermativa: ‒ Occhei! ‒ dissero.
Un passo avanti era stato fatto, e compresi che era arrivato il momento di smettere di gingillarmi e impegnarmi a fondo per fare breccia nel cuore delle pulzelle. Allungai una mano sul fianco della bionda, facendola poi scivolare verso il basso per potere così misurare la consistenza di quelle carni. Lasciava fare… Ci siamo! mi dissi, e pronosticai che di lì a una mezz'ora, giusto il tempo di vuotare un paio di bicchieri, l'avrei sbattuta su un materasso.
A quel punto accadde un fatto bizzarro: si avvicinò a noi il professore e s'inserì nel gruppo salutandoci con voce flautata.
Per non passare da maleducato feci o almeno provai a fare le presentazioni, operazione che mi riuscì in malo modo poiché i nomi delle mie nuove amichette li avevo già dimenticati. Per levarmi dall'impaccio cincischiai e lasciai che i tre se la sbrigassero da soli. Al termine del penoso scambio di frasi di rito il professore estrasse dal portafoglio un bigliettone e lo sventolò con energia per attirare l'attenzione del barista titolare. Come quello si avvicinò il professore annullò la mia misera ordinazione e ad alta voce pronunciò la parola magica: SCIAMPAGNA! per poi subito dopo invitare noi tre al suo tavolo; che classe! un vero signore! lo devo riconoscere.
Ci allontanammo dal bancone del bar. Gli altri avventori ci guardavano con fare lupesco e rosi dall'invidia. Di certo avevano in animo di saltarci addosso e azzannarci alla gola così da metterci fuori combattimento e sostituirsi a noi con le sgallettate; ma non successe nulla del genere e arrivammo incolumi al tavolo del medicastro danaroso.
La mora, dopo aver visto la grana balzar fuori dal portafoglio del cerusico, si era fatta più serena; la bionda si mordeva con fare nervoso le unghie e continuava a ridacchiare; che avesse da ridere non saprei dire!
Non appena ci ponemmo a sedere le maiale accavallarono le gambe; entrambe non erano messe male in quanto a cosce. Durante l'operazione di sovrapposizione degli arti l'occhio mi cadde, o meglio, s'insinuò fra le più recondite intimità della bionda. Fu una frazione di tempo infinitesimale ma sufficiente per accorgermi che non portava le mutande; che scostumata! La deliziosa seppur breve visione ebbe su di me effetto immediato: il mio tronchetto che fino ad allora era rimasto in condizione di riposo in attesa dello sviluppo degli eventi, s'ingrossò in modo fulmineo e quanto mai anomalo tanto che mi parve di avere tra le gambe un affare delle dimensioni di una pannocchia ben matura. Durante tale metamorfosi un pelo, o forse più di uno, s'intorcinò in punta facendo sì che la pelle tirasse e mi provocasse un leggero fastidio. Per ovviare allo spiacevole contrattempo con la punta delle dita mi diedi una veloce rassettata al fine di liberare il suddetto pelo, ed eseguii tale delicata operazione approfittando di un momento in cui mi pareva che nessuno stesse guardando; ma non fu così: la bionda si accorse della mia agile manovra e con un sorriso grondante malizia mi fece intendere quanto fosse felice nel sapermi arrapato.
Arrivò lo sciampagna al tavolo.
La mora si levò la giacchetta e la pose sulla spalliera della sua sedia. Indossava una canottiera leggera e non portava reggiseno. Aveva due belle poppe; roba seria, mica da ridere!
Mentre era intento a rifarsi gli occhi sulla maggiorata al segaossa squillò il cercapersone. A quel suono emise una specie di ruggito. Guardò il numero da cui era partita la chiamata, fece una smorfia di disappunto misto a dolore, poi sollevò le terga si protese verso il centro del tavolo e lasciò cadere l'aggeggio nel secchiello del ghiaccio. Il cercapersone emise un sibilo, poi un lamento, e infine si spense del tutto. Vi fu un applauso spontaneo da parte di noialtri tre che eravamo seduti al tavolo; dopodiché il professore annunciò che quella sera non sarebbe stato disponibile per nessuno:
‒ Che non mi rompessero i coglioni! ‒ disse proprio così.
Brindammo, poi giù a bere.
La bionda che era scarna di petto ma che in compenso aveva una faccia da porca che rasserenava gli animi, si alzò dicendo che doveva andare in bagno a rifarsi il trucco e già che c'era ne avrebbe anche approfittato per fare un goccio d'acqua; parole sue, non mie. Subito si alzò anche la mora offrendosi di accompagnarla; in forza della regola non scritta che al cesso le donne debbano andarci sempre in due. Rimanemmo da soli io e il medico. Con fare da cospiratore si fece più vicino e mi confidò di avere puntato la mora, rimanendo poi a guardarmi con occhi languidi, come quelli di un cane cui si sta per dare un biscotto, in attesa di approvazione da parte mia. Gli dissi di non avere preferenze, e citando il primo verso di una famosa aria del Rigoletto di Verdi aggiunsi:
‒ Questa o quella per me pari sono.
Il medico apparve rincuorato ma ancora non aveva finito con le richieste, e domandò se una volta usciti dal locale fosse possibile usufruire della mia dimora poiché di certo sua moglie non avrebbe gradito ritrovarsi quella coppia di troioni in casa. Gli dissi che ero d'accordo e lo informai che il mio appartamentino da scapolo distava soltanto due isolati da dove eravamo; vi saremmo arrivati a piedi in un attimo e non avremmo rischiato che gli animi delle pulzelle si raffreddassero.
Le due galline fecero ritorno dal cesso e il quartetto si ricompose. Riprendemmo a bere e la bottiglia terminò quasi subito. Segaossa con un gesto imperioso chiamò il barman il quale si precipitò.
‒ ALTRO SCIAMPAGNA! ‒ ordinò, sempre a voce alta.
‒ Occhei! ‒ fu la risposta del barman e ci rassicurò che l'avrebbe portata al più presto, senza indugio.
La bionda con sguardo indagatore si mise a scandagliarmi il pacco; s'era accorta che durante la sua assenza aveva perso consistenza. Mi mise una mano sulla gamba, scivolò al centro, mi sfiorò il bagaglio, e quello come per incanto riprese subito consistenza.
Arrivò lo champagne…
Tirata a secco anche la seconda bottiglia il professore propose di levare le tende per andare in un luogo più intimo e appartato.
Le troiette si guardavano, smorfieggiavano, facevano le preziose.
Lui le invitò ad avvicinarsi per poi dire qualcosa con un filo di voce tanto che non mi fu possibile udire. Le ragazze sorrisero. Parevano soddisfatte.
Il professore si alzò e le gentili signorine lo imitarono.
Era ora di andare.


Eravamo fuori dal bar.
La temperatura era gradevole e pareva che le zanzare fossero già andate a dormire.
Il professore e la bruna partirono in velocità. Ci staccarono meglio di un Fausto Coppi sul Passo dello Stelvio. Lei lo teneva sottobraccio; lui pareva felice come un bambino in visita a Gardaland senza i genitori.
Anche la bionda per non essere da meno della collega mi prese sottobraccio. Sembravamo una coppietta di sposini in viaggio di nozze. All'improvviso torse il busto verso la strada e fece partire uno scaracchio che si schiantò sull'asfalto. Fu un tiro di notevole lunghezza: almeno tre metri! Subito ragionai che era una che ci sapeva fare, almeno per quanto riguardava gli scaracchi, e le misi una mano sul culo. Lei per tutta risposta mi schiaffò la lingua in bocca… La serata si metteva bene! pensai.
Arrivammo davanti al mio condominio.
Dal mazzo non riuscivo a trovare la chiave giusta. Il professore incalzava, spingeva, aveva la fregola che avanzava.
‒ Presto! Presto! ‒ mi diceva. ‒ Non stia a trastullarsi con quelle minchia di chiavi! Apra questo cazzo di portone!
Finalmente potei annunciare di averla trovata e la infilai nella serratura. Bastò un mezzo giro e il portone si aprì.
Il dottore emise un raggiante ah di soddisfazione.
Vi era solo un piano da fare e per salire usammo le scale… Davanti a noi maschietti le femminucce procedevano sculettando, gradino dopo gradino… Tra una sbirciata di chiappa e l'altra e la contemplazione di un poco di pelo, (mi permetto di ricordare che la bionda era priva di mutande) avevo avuto modo e tempo di cercare la chiave che apriva la porta del mio appartamento; lo avevo fatto per evitare di farmi rompere ancora i coglioni dal professore. Tenendola ben salda tra le dita la infilai nella serratura. Un paio di giri e la porta si aprì. La spinsi fino a spalancarla, e con consumata teatralità feci segno ai miei gentili ospiti per invitarli a entrare.

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